I peccati del greenwashing e il rischio scetticismo

Questa settimana ospitiamo Alessandro Ingegno, con un interessante approfondimento sul Greenwashing, cercheremo di capire con lui se oltre al marketing tinto di verde su cui molti marchi stanno puntando c’è davvero una maggiore attenzione all’ambiente e alla sostenibilità.

M.S.

Alessandro Ingegno: Giornalista laureato in Relazioni Internazionali e Studi Diplomatici, vincitore della I edizione di “IoReporter Award” organizzato da Virgilio e SkyTg24, è attualmente redattore del notiziario ambientale Eco dalle Città – edizione Napoli per il quale lavora all’inchiesta sullo smog nella città partenopea. Durante il Corso di Giornalismo ambientale “Laura Conti” ha lavorato per “La Nuova Ecologia”, mensile di Legambiente. Collabora da 3 anni con il Corriere del Mezzogiorno e per altre testate d’informazione online. Da 2 anni gestisce un blog d’informazione.

Il suo blog è alessandroingegno.wordpress.com




Negli ultimi anni sono sempre più numerose le aziende che hanno deciso di sposare criteri di produzione sostenibili in vista di un necessario progressivo ripensamento del modello di sviluppo occidentale, anche per andare incontro ad una crescente sensibilità dei consumatori per il rispetto dell’ambiente. Le pratiche ambientaliste vanno però distinte da un fenomeno, che si sta diffondendo a macchia d’olio, che prende il nome di Greenwashing, neologismo coniato nel 1986 a New York dall’ambientalista Jay Westerveld, e composto dalla crasi di “green” e di “brainwashing”.

Il Greenwashing è una pratica di marketing aziendale che consiste nel far apparire i propri prodotti o servizi il più eco-friendly possibile agli occhi dei consumatori,anteponendo la forma alla sostanza. Un’operazione d’immagine quindi. C’è infatti chi lo chiama marketing di facciata, chi pubblicità ingannevole, chi vera e propria eco-truffa. Il rischio prodotto da questo nuovo trend è duplice: se il rispetto dell’ambiente è solo di facciata, quindi non si traduce in effettivo ripensamento eco-friendly della filiera produttiva di beni e servizi, la devastazione del pianeta continuerà ai ritmi degli ultimi decenni; il secondo rischio è il perpetrarsi di un inganno di massa ai danni dei consumatori.

L’esempio più calzante è quello delle tante compagnie petrolifere (Bp docet) che negli ultimi anni, consapevoli dell’ondata “environment friendly”, hanno messo in pratica il Greenwashing: alcuni hanno investito in energie rinnovabili – mantenendo però come principale ogg etto del proprio business l’oro nero –, mentre altri si sono limitati a dare una spruzzatina di verde al logo.

Nella maggior parte dei casi quindi questa pratica nasconde grandi contraddizioni, “peccati” che il sito Seven sins of Greenwashing, prodotto dalla società statunitense di consulenza per l’ambiente “TerraChoice Environmental Marketing”, ha snocciolato, creando l’elenco dei “Sette peccati del Greenwashing”.

Questi, in sintesi, i sette peccati:

1- Spesso un prodotto viene presentato come “green” in base ad un numero limitato di attributi, senza curare altri importanti aspetti ambientali;

2- Alcuni prodotti hanno una pretesa “ambientalista” che non può essere dimostrata con informazioni facilmente accessibili a tutti (il nucleare verde?);

3– Una presentazione scarsamente definita o poco chiara di un prodotto può facilmente essere fraintesa dai consumatori, al punto da ingannarli sul suo reale significato;

4– Presenza di false etichette sul mercato: prodotti che, tramite parole o immagini, danno l’impressione di avere l’appoggio di componenti ambientaliste;

5– Annunci di criteri e pratiche sostenibili irrilevanti, perché magari già imposti dalla legge;

6– La presentazione di un prodotto eco-friendly nella categoria di appartenenza, ma che distrae i consumatori dal grosso impatto ambientale (sigarette organiche);

7– Presentazioni di prodotti “green” semplicemente falsi, nonostante certificazioni ecolabel e registrazioni.

Individuati questi peccati TerraChoice ha quindi studiato le pratiche delle industrie americane applicando questa classificazione ed è giunta alla conclusione che il 98% dei 2.219 prodotti esaminati nel Nord America ha commesso almeno uno di questi sette peccati (Greenwashing Report 2009).

Essendo il Greenwashing una pratica che si sta affermando solamente di recente in Italia non esistono ancora studi riguardanti i mercati italiani. Per questo motivo è fondamentale fare comunicazione, in primis per smascherare eventuali eco-truffe, e poi affinché si innalzi la soglia critica dei consumatori spingendoli ad andare oltre la facciata verde, evitando che questo si traduca in uno scetticismo che sarebbe un boomerang per l’intero movimento ambientalista. Lo scetticismo dei consumatori nei confronti di qualsiasi eco-label finirebbe infatti per danneggiare coloro che realmente rispettano criteri eco-friendly stando attendi alla sostenibilità e all’impatto sull’ambiente nel corso dell’intera filiera del prodotto/servizio.

Alla luce di questo, in Italia quali aziende credete che abbiano “peccato” di greenwashing e non di vera coscienza ecologica?

Giornalista laureato in Relazioni Internazionali e Studi Diplomatici, vincitore della I edizione di “IoReporter Award” organizzato da Virgilio e SkyTg24, è attualmente redattore del notiziario ambientale Eco dalle Città – edizione Napoli per il quale lavora all’inchiesta sullo smog nella città partenopea. Durante il Corso di Giornalismo ambientale “Laura Conti” ha lavorato per “La Nuova Ecologia”, mensile di Legambiente. Collabora da 3 anni con il Corriere del Mezzogiorno e per altre testate d’informazione online. Da 2 anni gestisce un blog d’informazione.