Idroponica: l’agricoltura galleggiante

Idroponica questa sconosciuta. Il termine deriva dal greco hydros (acqua) e ponos (lavoro) e indica l’insieme delle tecniche per la coltivazione fuori suolo.

Nell’immaginario collettivo l’agricoltura è fatta da pianta, terra ed acqua. Se volete avvicinarvi all’idroponica dovrete abbandonare l’idea romantica del coltivare, per abbracciare le necessità della produzione.

I giardini pensili di Babilonia e le chinampas messicane confermano che l’idrocoltura è una pratica antichissima, codificata nel secolo scorso, diventata una tecnica agronomica.

foto: agrosysindia.com

L’idroponica, o idrocoltura, prevede la sostituzione del terreno con un substrato inerte, cioè che non reagisce a contatto con altri elementi a differenza del suolo.

William Gericke dell’ Università della California negli anni ’30 definisce le linee guida e conia il termine idroponica. La tecnica in quegli anni si diffonde fra gli hobbysti,  durante la seconda guerra mondiale. Le truppe americane sul fronte asiatico venivano rifornite di verdure fresche coltivate in idroponica su piccole isole nel Pacifico.

Le coltivazioni sono al coperto in ambienti a temperatura e umidità controllate. Le piante sono poste in supporti contenenti argilla o simili e irrigate con soluzioni nutrienti complete. E’ una tecnica che ben si adatta alla coltivazione di specie orticole e floricole, soprattutto dove le condizioni climatiche o del terreno siano ostili o dove il prodotto debba corrispondere a standard estetici e di pulizia.

Alcuni impianti addirittura non prevedono substrato, ma una rete di fili dall’alto sostiene la pianta e le radici nude sono immerse in un film liquido che nutre e impedisce in disseccamento, NFT – Nutrient Film Tecnique. L’asfissia radicale potrebbe sembrare un problema all’occhio del neofita, ma le radici non sono costantemente e completamente sommerse. Nel caso del DWC – Deep Water Culture le radici invece sono completamente e costantemente sott’acqua, ma le vasche sono ossigenate artificialmente.

Le produzioni sono maggiori rispetto al suolo libero sia per la maggior densità di piante collocabile sia per l’estremo controllo dei nutrienti. La verifica costante consente di agire tempestivamente sulle malattie e deficit nutrizionali.

foto: flickr.com/photos/sheepguardingllama/

I costi di gestione sono alti.

I costi maggiori derivano dalla costruzione e manutenzione delle serre e dei supporti, il sistema ha una centrale di monitoraggio della temperatura e dei parametri chimico- fisici, l’acqua è utilizzata in grandi quantità negli impianti senza ricircolo.

E’ dunque così irrilevante il contribuito del suolo alla produzione?

Generalizzando se si prende in considerazione il solo parametro quantitativo, si può dire di sì, controllando i fattori nel migliore dei modi si ottiene molto prodotto. I vegetali però vedono nel connubio suolo-clima la manifestazione delle migliori qualità organolettiche. Pensiamo ad esempio al vitigno sangiovese che in Emilia dà i popolari “rossi da tavola” mentre a Montalcino si trasforma in Brunello, l’uvaggio è lo stesso, ma il luogo e il suolo fanno la differenza.

Se l’idroponica garantisce la standardizzazione di prodotto, le piante nel suolo danno il meglio di sé.

Nel mondo occidentale dove la produzione è sovrabbondante perchè incrementarne i quantitativi? non sarebbe meglio puntare a tecniche di coltivazione che esprimano al meglio le qualità dei vegetali?

Personalemente credo che chi dice ” buono, pulito e giusto ” abbia ragione, alla fine il romanticismo è  la migliore qualità agricola.