Il Vesuvio visto da un antropologo | Intervista a Giovanni Gugg

Lo studio dei vulcani viene solitamente associato alla vulcanologia: una specializzazione della geologia che si occupa di fenomeni vulcanici, degli eventi eruttivi e dei rischi ad essi collegati. Il vulcanologo è quindi uno scienziato rigoroso che opera secondo metodi e strumenti delle scienze naturali. Questa impostazione non ci permette di riconoscere un altro aspetto molto importante in merito all’argomento: i vulcani costituiscono un rilevante elemento del territorio e i gruppi umani stabiliscono rapporti di significato con i luoghi che abitano. Proprio per questo ho intervistato l’antropologo culturale Giovanni Gugg che mi ha parlato del suo studio sul “rischio Vesuvio”.

Qual è stato l’oggetto della tua ricerca?

Per il mio dottorato mi sono occupato dell’elaborazione culturale del rischio vulcanico in un paese della zona rossa vesuviana. Indagando il rapporto che gli abitanti hanno col vulcano, ho studiato quali sfumature assume, oggi, la percezione collettiva del rischio. In altre parole, ho osservato l’influenza che vari fattori hanno su questo processo: la selezione della memoria dell’ultima eruzione (1944), le dinamiche politiche della ricostruzione e della conseguente urbanizzazione dell’area, le forme che assume il dibattito locale intorno al Piano di Emergenza della Protezione Civile (istituito nel 1995 e parzialmente modificato lo scorso anno). La questione che ho analizzato riguarda il vivere quotidiano in quella che è definita dai mass-media una “catastrofe annunciata”. La preparazione o l’impreparazione ad un’emergenza non sono innate in un determinato gruppo umano, ma sono caratteristiche storiche, costruzioni politiche.

In che modo la popolazione della zona interessata elabora il rischio vulcanico?

Il rischio è un concetto elaborato localmente e gerarchicamente, cioè è il risultato di una selezione: noi scegliamo i rischi di cui preoccuparci, e lo facciamo in base a vari parametri, come l’urgenza e la priorità dell’evento atteso, ma anche l’ordine e il disordine, il pulito e lo sporco. La capacità di rispondere ad un disastro o di prepararsi ad un rischio – la resilienza – va dunque costruita, ma intanto “risposte collettive” all’evento atteso ce ne sono già e si tratta di vere e proprie “strategie” messe in atto per far fronte a quella che Ernesto de Martino ha chiamato “angoscia territoriale”. Gli abitanti del Vesuvio, in altre parole, non hanno rimosso il rischio, così come non lo negano, bensì lo scotomizzano: l’attesa indefinita e l’ansia che questa condizione comporta necessitano di un antidoto all’angoscia, pertanto viene avviato un processo che allontana il pensiero della fine.

Come vengono allontanate le preoccupazioni degli abitanti del Vesuvio?

Ciò accade per mezzo di vari elementi, come ad esempio l’assenza di fenomeni vulcanici percepibili dall’uomo, che favorisce una loro “invisibilità cognitiva”, e problemi di altra natura, come le discariche e i problemi ecologici e sanitari, apparentemente ben più concreti e imminenti rispetto alla minaccia vulcanica. Anche la scienza ha un ruolo in questa dinamica, ad esempio quando gli studiosi assicurano che il Vesuvio è il vulcano più monitorato al mondo e spiegano che il tempo umano e il tempo geologico non coincidono, nozioni che localmente vengono rielaborate in una legittimazione del rimando. Viene così a crearsi un paradosso che permette di “sapere” del rischio, ma allo stesso tempo di “non sapere”: una condizione da tenersi in conto in qualunque pianificazione dell’emergenza.

Cosa ti ha spinto ad interessarti al Vesuvio?

Quello che mi ha sempre interessato del Vesuvio è che oltre ad essere un’affascinante espressione della natura, è un prodotto culturale, nel senso che è un “oggetto” a cui gli esseri umani attribuiscono significati specifici, sebbene mutevoli nel tempo e variabili in base alle esigenze di chi vi fa riferimento. Il Vesuvio, cioè, è un’invenzione, una costruzione dell’immaginario collettivo e, pertanto, è osservabile coi metodi dell’antropologia culturale. Ma il Vesuvio è una realtà socio-culturale complessa, stratificata e sfaccettata, per cui è necessario stabilire da quale prospettiva si intende osservarlo. Nel corso dei secoli il vulcano napoletano ha favorito il sorgere di svariate forme di culto, ha ispirato le arti e innumerevoli opere lo cantano, ha influenzato l’agricoltura e la forma delle abitazioni dell’area, facendo da sfondo a pratiche che oggi riemergono col recupero delle tradizioni, ha alimentato un immaginario che ha varcato i confini locali fino a farlo diventare un simbolo di portata internazionale, facendo così la fortuna di molti settori, dal cinema al turismo. È, cioè, un’immagine mentale, prima che geografica, ma è anche un luogo ricco di storie, che è possibile scorgere tra le pieghe del suo paesaggio. Intorno al Vesuvio, infine, è andato delineandosi un senso del rischio che potrebbe essere descritto come un “oggetto nell’oggetto”: emerge, cioè, dall’incontro di una pluralità di approcci e di sensibilità, ma è rappresentato spesso attraverso stereotipi e semplificazioni.

Quella del Vesuvio è una immagine molto evocativa, quali sono le rappresentazioni alle quali viene associata?

Il Vesuvio è innanzitutto un “topos”, un “luogo comune paesaggistico” che ha la forza di rappresentare l’intero territorio napoletano, oltre che, per estensione, le qualità e il carattere dei suoi abitanti. È come la Tour Eiffel o il Colosseo, cioè una parte del tutto, ma estremamente evocativa. Questi monumenti rappresentano ovviamente Parigi e Roma, ma non solo, perché sottintendono anche ingegno e progresso, forza e grandeur… La differenza lampante con Napoli è che questi sono topos fisicamente creati dall’uomo, mentre quello partenopeo è un topos vedutistico, cioè è un elemento della natura.
Come ogni simbolo, anche la rappresentazione del Vesuvio ha una storia, la quale, in genere, viene fatta risalire alla sua ultima grande – e catastrofica – eruzione, quella del 1631, che aprì il ciclo eruttivo terminato poi nel 1944. Successivamente, anche grazie alle scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano, questa immagine si è consolidata con il Grand Tour e, più di recente, con il turismo di massa: dall’arte alla scienza, dalla religione alla politica, per mezzo di gouache, ex-voto, fotografie e cartoline, l’iconografia del Vesuvio si è affermata come una tra le più longeve e celebrate, ed oggi ha assunto un’ulteriore dimensione, quella di “logo”, legata al tipo di società in cui viviamo. In quest’ultima accezione, il Vesuvio lo si ritrova su stemmi, souvenir, insegne, locandine, marchi, biglietti da visita, pagine web, brand aziendali, istituzionali, sportivi, associativi, enogastronomici e così via. Questa immagine è sia un simbolo che una merce e sta sempre per qualcosa di altro da sé; assumendo significati molteplici, finisce per svolgere funzioni diverse: su un’etichetta alimentare indica la provenienza del prodotto, così da conferirgli maggior pregio e qualità; sulle insegne di pizzerie e ristoranti non comunica solo un’appartenenza territoriale, ma anche e soprattutto un’identità culturale, nonché un’idea di “genuinità” e di “originalità”; in altri casi quel logo evoca la potenza del cratere, sia in senso agonistico, come nel caso di associazioni sportive, sia per quanto riguarda la creatività, come nelle locandine dei concerti rock, dei festival cinematografici o delle rassegna di cabaret.

L’intervista a Giovanni Gugg ci fa riflettere sulla densità di significati che si costruiscono intorno al Vesuvio. Aspetti rilevanti che prospettano il vulcano partenopeo fenomeno culturale, prima ancora che oggetto di studio naturalistico