Alcune contraddizioni della spesa a km 0

I prodotti alimentari a km 0 sono quelli la cui vendita avviene in un’area pressoché vicina a quella di produzione. Con questo sistema vengono ridotti al minimo i trasporti e gli imballaggi che, oltre ad abbattere i costi, avrebbe grande rilevanza in termini di inquinamento. È  proprio quest’ultimo aspetto che più viene preso in considerazione dagli studi che usano i food miles come indice per misurare l’impatto ambientale: più un alimento ha viaggiato, più ha consumato energia e maggiore è il suo impatto ambientale. In un’ottica di consumo critico, mangiare a km 0 sembrerebbe una scelta maggiormente sostenibile per l’ambiente; permetterebbe inoltre di conoscere, apprezzare e valorizzare direttamente le realtà locali. Ma ad una lettura più accurata, emergerebbero diverse incongruenze, alcune di ordine economico altre di tipo culturale.

Facciamoci due conti sulla produzione di CO2

In un recente studio il DEFRA, il Ministero dell’Ambiente e dell’Agricoltura britannico, si è interrogato proprio sulla validità del food miles come indice della sostenibilità ambientale. L’ indagine ha scoperto che, da soli, i chilometri percorsi dal cibo per arrivare sulla tavola del consumatore, non rappresenterebbero un indicatore attendibile per l’impatto ambientale. Un’altra importante variabile di cui tenere conto sarebbe proprio la distanza coperta dai compratori. In quest’ottica sarebbe infatti preferibile che i consumatori si recassero in un unico punto vendita, piuttosto che effettuare diversi viaggi in altrettanti negozi. A questo di aggiunge che il trasporto delle merci è organizzato dalla GDO in maniera più efficiente: vengono utilizzati meno mezzi pesanti al posto di tanti piccoli autoveicoli di privati.

Inoltre, una caratteristica della spesa a km 0 è che viene effettuata direttamente presso l’agricoltore. Uno studio ha calcolato che se percorrete 10 km in macchina per andare a comprare 1 kg di verdura, generate più CO2 che non facendola venire direttamente dal Kenya.

Globalizzazione vs “tradizione locale”

L’Italia esporta prodotti di eccellenza nel campo agroalimentare, però il km 0 non viene invocato quando si tratta di vantare le vendite del vino italiano all’estero. Con questo veniamo al secondo ordine di problemi. La filosofia che coniuga il cibo sano e naturale purchè sia del territorio, è un paradosso del tutto moderno. Emerge sempre di più un protezionismo del tutto nuovo per la storia dell’alimentazione, contraddistinta da sempre dal un alto livello di ibridazione e di scambio. A questo si aggiunge una reazione di chiusura ad una industria alimentare globale, l’omologazione dei consumi ci spinge a ricercare una identità specifica attraverso i cibi che mangiamo. Per esaltare ancora di più le produzioni locali, al cibo vengono associate sempre di più le metafore di “tradizione alimentare” e “radice culturale”. Senza contare poi la retorica degli “antichi sapori”, della “cucina povera” e del “gusto di una volta”. Evocare un passato spesso arcaico, un tempo felice e dorato, è tipico di un “revival identitario” utilizzato spesso per scopi strumentali, politici o economici. Una selezione di elementi studiati ad hoc per impressionare e per essere il più possibile coerenti. Il km 0 e la riscoperta dell’alimentazione locale sembrano finalizzati soprattutto alla “vendita del territorio”, alla promozione economica sostenuta soprattutto da associazioni di categoria nazionali e locali.

Facciamo attenzione a capire cosa è e cosa potrebbe sottendere la spesa a km 0, se fa veramente bene all’ambiente e a noi stessi. Documentiamoci senza accettare acriticamente ideologie e visioni romantiche.