Veganismo: una scelta veramente etica?

Fino all’Ottocento un regime alimentare privo di carne veniva chiamato “pitagorico”, il vero teorema del filoso greco è quello che riusciva a conciliare l’anima con il corpo: una dieta salutare che non prevedesse nessuno spargimento di sangue o crudeltà verso gli animali. Ancora oggi molti di quelli che decidono di non mangiare carne di nessun tipo, lo fanno anche per una ragione etica se non addirittura politica. Il consumo di carne, oltre ad intossicare il corpo (molti studi ne hanno dimostrato la relazione con malattie molto diffuse nelle società industriali, come la coronopatia o il diabete) nuoce anche alla collettività. L’allevamento intensivo andrebbe a discapito della produzione agricola, senza considerare il consumo di energia che ruota attorno a questa industria e che provocherebbe un aumento dell’inquinamento.

Mangiare i prodotti della terra, creerebbe una armonia con la natura: si mangia per vivere e non il contrario. Gli animali, nobilitati come nostri fratelli, vengono estromessi dalla catena alimentare. Il veganismo come approccio filosofico non accetta che, per il nostro nutrimento, debbano essere uccisi o debbano soffrire esseri viventi. Si rifiuta qualsiasi sfruttamento animale, anche per quanto riguarda l’abbigliamento, l’intrattenimento o qualsiasi altro scopo.

Il vegano quindi non si chiederà mai di cosa è morto il cibo che ha nel piatto. Ma forse difficilmente si interrogherà sulla provenienza di cosa ha sotto il naso. Della frutta e verdura che compra, saprà sempre in che condizioni sono state coltivate? Se sono stati rispettati tutti i diritti dei lavoratori dei campi? Diversi rapporti internazionali denunciano lo sfruttamento dei lavoratori agricoli; questi sarebbero soprattutto immigrati, molto spesso soggetti ad un regime di schiavitù. Dati ancora più allarmanti provengono dall’UNICEF, secondo il quale «L’agricoltura rappresenta oltre il 70% del lavoro minorile in tutto il mondo».
Il vegano non attento a queste tematiche, finirebbe per non avere la coscienza completamente pulita: decolpevolizzandosi per l’uccisione di animali per nutrirsi, mangerebbe comunque cibo prodotto da una condizione di ingiustizia e che provocherebbe la sofferenza di esseri umani.
Lo stesso discorso vale per tutto quello che compra quotidianamente: dagli abiti agli elettrodomestici.

Eliminare solo la sofferenza e lo sfruttamento degli animali potrebbe essere un passo falso verso un’etica del consumo, forse un ideale vuoto e politically corret. Il consumo critico prevederebbe un severo controllo su tutta la filiera, una trasparenza che ci permetta di accertare se quello che compriamo è veramente “giusto”: prodotto e distribuito in condizioni rispettose di tutti.