I giacimenti di Calvi Risorta – III puntata

Continua il reportage di Gianluca Vitiello su Calvi Risorta. La prima puntata del reportage è disponibile a questo indirizzo, la seconda a questo indirizzo. Buona lettura.

Il lavoro di Vitiello è parte di un lavoro più ampio, in corso di pubblicazione, sul fenomeno dello smaltimento illegale di rifiuti in Campania. Il testo integrale è tratto da ACHAB, ottobre 2015, Marco Saya Edizioni.

 

Nei primi giorni di giugno del 1978, un gruppo di venti agricoltori era al lavoro fin dalle prime ore del mattino per la raccolta delle pesche. Si iniziava tutte le mattine alle 5 in punto, non un minuto più tardi, in particolare in quell’estate, una delle più calde del decennio, con il termometro che era schizzato in alto già dai giorni di fine maggio. Dopo pochi minuti dall’inizio del lavoro, accadde qualcosa. Iniziarono a sentirsi male. Vomito, soffocamenti, giramenti di testa, svenimenti. Il caldo però non c’entrava per niente. Alcuni riuscirono comunque a scappare, in cerca di soccorso. Raccontarono che al loro arrivo nei campi, avevano trovato ad attenderli una sottile nebbiolina. Giuseppe Clemente comandava la stazione dei carabinieri di Sparanise. Di quel periodo ho rintracciato una vecchia foto che lo ritrae alla sua scrivania. Un ufficio scarno, come ci si aspetterebbe per una caserma di un piccolissimo centro campano negli anni ’70. Clemente indagò, e scoprì la pesante contaminazione di quei terreni. Quando, con una pala meccanica, iniziò a scavare, i rifiuti vennero fuori subito. Ma la cosa peggiore, è che sotto altri strati di rifiuti sorreggevano i primi. Di quei momenti Gino ricordava tutto, sia perché la cosa ebbe molta risonanza in paese, sia perché ricordava quegli anni come gli ultimi felici prima della lunga malattia, che avrebbe sconfitto dopo sei anni di sofferenze. Nonostante le voci insistenti, nessuno immaginava che la situazione fosse tanto grave. Fu informata la procura di Pignataro Maggiore, che senza celebrare il processo condannò la Pozzi Ginori al pagamento di 250 mila lire per la violazione dell’articolo 674 del codice penale. L’articolo recitava “Getto pericoloso di cose”, e quella cifra fu tutto ciò che la Pozzi ebbe a pagare per la faccenda. La comunità locale, ormai con le spalle al muro, si indignò per la risibile condanna inflitta all’azienda. Ma durò poco. D’altra parte quasi tutti avevano qualche parente che lavorava lì dentro. La politica restò immobile, e sui giornali la notizia passò in sordina. Erano anni infuocati. Moro era stato assassinato solo un mese prima. Altri i temi riempivano le pagine dei giornali. Quando si aprì il decennio successivo, il gruppo di Bardellino, affiliato a Cosa Nostra, già dominava nei territori del casertano. Insieme agli storici alleati del clan Alfieri e ed altri clan, eliminò la NCO di Raffaele Cutolo. Una guerra sanguinosissima, con alle spalle il controllo del grande affare della ricostruzione post-terremoto. Per anni il business del calcestruzzo arricchì  le casse dei clan. Grandi opere pubbliche ed edilizia privata: era necessario tanto cemento, e si iniziò a scavare ovunque per recuperare gli inerti necessari alla produzione del calcestruzzo, dal litorale domizio, fino ai fianchi delle montagne.  Per dirla con le parole del pentito Carmine Schiavone, si scavavano tante buche, anche per le fondazioni di opere come i giganteschi viadotti della TAV, o della superstrada Nola – Villa Literno. Fu in quel momento che si incontrarono gli interessi dell’industria del Nord, della politica e della camorra. Le buche furono riempite fino all’ultima, con rifiuti tossici. Intanto Bardellino era stato assassinato in Brasile nel 1988, e una nuova leva di camorristi aveva preso il comando del clan dei casalesi.

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Anche la discarica della Pozzi, entrò nel grande giro di quelle utilizzate dai casalesi. La fabbrica era entrata in crisi nella seconda metà degli anni ’80, e poi fu chiusa definitivamente. Il giornalista Salvatore Minieri prese a occuparsi della faccenda nel 2011. La storia della discarica della Pozzi la sentiva da quando era ragazzino. Negli anni ’80, da liceale, ci andava spesso a vedere di persona quell’area su cui circolavano tante storie e qualche leggenda. Erano più che altro voci sussurrate a mezza bocca, di cui è intrisa tutta la vicenda dello smaltimento illegale di rifiuti. Voci silenziose che emergono dal sottosuolo, mille spifferi che non raggiungono mai la consistenza di voce piena. Nei suoi ricordi degli anni ’80, i racconti degli operai anziani della Pozzi erano un susseguirsi di allusioni, di cose non dette e di segreti inconfessabili. Ombre notturne che si aggiravano per i terreni intorno alla fabbrica come spiriti maligni, riversando nel terreno sostanze innominabili e pericolosissime. Le voci erano rimaste sotterranee anche dopo che la Pozzi aveva chiuso. Eppure c’era qualcosa che faceva pensare che la situazione fosse addirittura peggiore rispetto a quanto scoperto dal comandante Clemente nel 1978. Per Salvatore Minieri quel qualcosa aveva a che fare con la sua percezione visiva. Lui d’altra parte su quei terreni ci andava addirittura a correre. Si stava preparando per qualche gara di mezzo fondo e il terreno intorno al rudere della Pozzi era il posto ideale per allenarsi. Lo aveva fatto fino al 2011. Poi, insieme a due colleghi iniziò a interrogare vecchie foto aeree, scattate alla fine degli anni ’60 proprio sulla zona dello stabilimento. Il terreno appariva in quelle immagini come una vallata, degradante dall’impianto fino al ruscello, popolata da una fitta vegetazione e alberi da frutto. Il passo successivo era confrontare l’immagine con una aggiornata. Così si dotarono di un drone, lo fecero innalzare sull’area e scattarono delle foto. Il risultato fu sorprendente. La vallata era stata completamente sostituita da varie collinette che l’avevano riempita completamente. E questo poteva significare solo una cosa. L’allarmante scoperta raccolse come sempre il generale disinteresse di politica, stampa e società locale. Fino a quando, nel 2014, munito di una semplice zappa, Minieri iniziò a scavare in più punti dei terreni dell’ex Pozzi. Pochi colpi di zappa, venti o trenta centimetri di terreno rimosso, e i rifiuti emersero a fiotti, come liquido compresso in un contenitore ormai troppo piccolo. Vari strati di terra, prima di colore azzurro, poi rosso, infine fango melmoso e puzzolente quando la zappa affondò fino a 50 centimetri. Il tutto fu ripreso in un video, che fu postato in rete. Finalmente si accese l’interesse del popolo del web. E per fortuna anche del comandante Vincenzo Gatta, della forestale. Quando iniziarono gli scavi e i primi rilievi fu definitivamente chiaro che si trattava della più grande discarica d’Europa, con la sua estensione di oltre 25 ettari. Materiali provenienti da gran parte d’Italia, molti paesi europei e persino dall’estremo Oriente. Segno evidente che quella discarica era stata utilizzata ben oltre la data di chiusura della Pozzi. Secondo alcune testimonianze addirittura fino al 2011. Minieri ritiene che vi sia stato un periodo di cogestione della discarica, divisa a metà tra Pozzi e camorra, prima che la Pozzi scomparisse del tutto. Ancora una volta, al centro c’era la grande industria. Perché se è vero che lo scempio campano trae origine dall’intreccio di interessi di politica, imprenditoria e camorra, secondo alcune testimonianze non si sarebbe trattato esattamente di un incontro a metà strada. Gli scavi della forestale avevano portato alla luce il metodo classico di interramento dei rifiuti dei casalesi, a strati separati da cemento, quello che tutti chiamano il “biscotto”, una sorta di firma. Vecchi operai, anche di altre fabbriche, mi hanno però raccontato che le tecniche di interramento dei rifiuti erano un bagaglio consolidato di una fetta di aziende italiane. E che la mafia casalese, una volta entrata nel business, si sia avvantaggiata di conoscenze tecniche già sperimentate.

Quale che sia la verità su Calvi Risorta, è uno schema che si ripete. La competitività di interi comparti industriali basata sullo sfruttamento selvaggio dei territori, in particolare del Sud. Al quadro bisogna aggiungere gli altri elementi. La camorra, certo, ma soprattutto la parte di borghesia campana che sulle emergenze si è arricchita con consulenze e incarichi strapagati e quasi sempre fasulli, e la politica collusa con la criminalità. Alla base di tutto ci sono le reti clientelari. Non è possibile comprendere queste vicende, e neppure il grado di consenso di cui gode il sistema nonostante le tante morti, se non si considera che le emergenze post-terremoto e rifiuti hanno rappresentato in Campania anche lavoro per tanta gente, e di conseguenza il controllo pressoché totale dei pacchetti di voti in determinate zone. Ancora una volta benessere fittizio, in cambio della libertà e sempre più spesso della vita.