Vivere in campagna: idillio o fatica?

Quando dico che vivo in campagna, in una cascina ristrutturata, con un grande orto, alberi da frutta, galline e oche sento su di me sguardi colmi di invidia.

Effettivamente penso di essere fortunata, soprattutto perché faccio crescere mio figlio in questo ambiente: un piccolo comune di provincia nello stupendo paesaggio delle colline del Monferrato. Mio figlio ha due anni e mezzo e ama stare all’aria aperta. L’estate scorsa non vedeva l’ora di andare nell’orto a raccogliere i pomodori o mangiare i pisellini e direttamente dalla pianta.

Cosa vorrei di più per la mia famiglia?

Ma è davvero tutto oro quello che luccica? La vita in campagna è un idillio? Cosa comporta in termini di energia, fatica e rinunce un “ritorno alla natura”? È una scelta del tutto sostenibile o cela qualche inganno?

Io sono una cittadina trapiantata in campagna. La mia è stata una scelta consapevole, ma molto combattuta.

Vivere in campagna non è semplice. O meglio vivere “in” e “di” campagna.  Lo scopo della nostra famiglia è l‘autoconsumo, provare a vivere della terra e dei suoi frutti. Ma è un continuo imparare e purtroppo sbagliare.

Il primo anno molti dei semi piantati nell’orto non hanno dato i frutti desiderati. Quanta fatica sprecata! Avere un orto significa fare un atto di amore e di cura: concimarlo, lavorare la terra, piantare nel giusto periodo, aiutare la crescita irrigando, mettendo delle canne perché le piante crescano dritte, rincalzando la terra. Se si hanno alberi da frutto bisogna potarli, fare i giusti trattamenti.

E poi se tutto va bene, ecco che arriva il momento tanto atteso della raccolta e della conservazione se si tratta di un’annata particolarmente prospera.

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L’orto va curato ed amato e necessita di attenzioni continue. Stesso discorso se si decide di allevare animali. Hanno bisogno di essere puliti, nutriti, abbeverati. E tutti i giorni. Questo comporta rinunce a uscite nei weekend e vacanze a meno di non trovare qualche vicino di casa disposto ad aiutarti e sostituirti per qualche giorno.

Anche l’autunno e l’inverno sono mesi impegnativi. Bisogna preparare la legna, tagliarla, accatastarla e poi ogni giorno andare a prenderla e accendere il camino o la stufa che necessitano di una giusta manutenzione.

Alla fine però quando si vede anche solo qualche risultato, tutta l’energia viene appagata. Quando sulla tavola servo un piatto di pasta con la conserva fatta da me o realizzo regali per amici e parenti con le marmellate fatte in casa, posso effettivamente dirmi orgogliosa.

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Ma oltre alla fatica e all’impegno, c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare che può rendere la vita in campagna poco sostenibile dal punto di vista sia ambientale che sociale.

Parlo delle distanze che qui sono dilatate e necessitano quasi sempre dell’uso dell’automobile. In città mezzi pubblici, bicicletta o andare semplicemente a piedi ci permette di lasciare la macchina parcheggiata in garage. Dove abito io, il treno non passa più, i pullman hanno orari spesso scomodi e l’unica opzione che resta è la macchina.

Io ho provato ad arginare il problema con il telelavoro potendo lavorare da casa. Basta una connessione Internet ed ecco che le distanze si annullano. Ma non tutti possono avere un lavoro di questo tipo che tra l’altro può avere anche un lato umano negativo: l’isolamento.

Il tema sarebbe molto ampio e meriterebbe una trattazione ben più approfondita come ad esempio fare del lavoro in campagna un nuovo impiego: sarà forse questo l’obiettivo a cui aspira la mia famiglia?

Spero di avervi dato, cari lettori, qualche spunto di riflessione e attendo con ansia i commenti di chi, cittadino come me, si trova alle prese con terra, semi, legna e uova da raccogliere e di chi, invece, ha dovuto lasciare la campagna per la città.

Anche le vostre sono state scelte difficili?