Indumenti usati: rifiuti oppure no?

Sicuramente la risposta alla domanda è tutt’altro che semplice e soprattutto, vista la normativa vigente in Italia, non è nemmeno diretta e univoca. Per cominciare, ricordiamo proprio quanto recita la legge, in quanto a definizione di rifiuto. All’art. 183 del D.lgs. n.152/06 e ss.mm.ii. definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del d.lgs n. 152/06 e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Il concetto di “disfarsi” indicato nella legge ha incontrato differenti punti di vista e interpretazioni, che hanno dato luogo a casi e situazioni delle più variegate in materia. Molto spesso viene associato al verbo “dismettere”, per il fatto che la sostanza o l’oggetto non assolve più alla sua funzione originaria.

Nel caso degli indumenti usati, il panorama interpretativo è ampio, tanto da accostarsi a ulteriori settori, quale ad esempio il sociale. E quali sono le situazioni più diffuse in Italia?

immagine tratta dal sito www.rifiutinforma.it
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L’elemento che accomuna i diversi casi conosciuti sta nel cassonetto utilizzato per la raccolta degli indumenti usati, di colore generalmente bianco o giallo, posizionato spesso in punti “strategici” come la vicinanza a edifici religiosi. Ed è proprio qui che si incontra la realtà sociale della questione, in particolare quando la raccolta degli abiti dismessi viene gestita da enti benefici o similari, il cui scopo è quello di destinare il materiale raccolto a bisognosi o poveri: il tutto avviene ovviamente escludendo le “pratiche” onerose generalmente utilizzate per la ordinaria gestione dei rifiuti.

A partire da questo esempio, non è raro trovare in svariate città i cassonetti citati, gestiti però da vere e proprie aziende vincitrici di appalti che, alla stregua di enti benefici, trattano gli indumenti usati come merce qualsiasi, bypassando il concetto di rifiuto. E una volta riempito il cassonetto? Che fine fa il contenuto? Nella maggior parte dei casi viene destinato a un magazzino di stoccaggio dove viene, prima di tutto, igienizzato. Dopo una accurata selezione, il destino successivo può variare dal negozio “vintage”, all’esportazione verso paesi “poveri” (es. Africa), dall’utilizzo come pezzame industriale, alla rifilatura (per imbottitura o produzione di tappetini): solo una piccola parte, non riutilizzabile, sarà inviata in discarica. Anche qui, di tutto quanto detto non c’è traccia del concetto di rifiuto e delle sue ordinarie attività operative, poiché tuttora la gestione avviene non considerando tale il contenuto raccolto nei cassonetti.

immagine tratta dal sito www.adnkronos.com
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Una nota da evidenziare sta nel fatto che spesso, gli indumenti usati, una volta passati dall’igienizzazione e selezionati, “rientrano” nella filiera del mercato in modo praticamente gratuito, facendo una sorta di concorrenza ai mercatini dell’usato in cui, prima di essere rivenduto, viene pagato (a volte anche profumatamente).

Appurata quindi la difficoltà interpretativa della legge in materia, sicuramente quello che è necessario, non solo per la tipologia di materiale discusso, è un po’ di chiarezza in generale su ciò che rappresenta un vero “rifiuto” e ciò che, pur assomigliandovi, potrebbe non esserlo: il tutto possibilmente mettendo al centro della discussione l’obiettivo, intrinseco alla definizione di rifiuto, di perseguire sempre la tutela e la sicurezza dell’ambiente e dell’uomo.