Intervista al Dott. Gianluca Valensise: trivelle e terremoti, alla ricerca della verità sommersa

Sblocca Italia, Adriatico, trivellazioni, shale gas, un vero e proprio terremoto ha colpito il mondo dell’informazione; nell’ultimo periodo, infatti, il comparto dell’energia è stato travolto da un boom di commenti, buoni propositi, intenzioni, rivelazioni, inchieste o presunte tali: ho deciso di provare a fare chiarezza nel mare magnum delle affermazioni, interviste ed editoriali che incalzano, attraverso quest’intervista al Dott. Gianluca Valensise, ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

Ecco la sua verità.

1) Dott. Valensise, lei è autore di un importante studio appena pubblicato sulla correlazione tra giacimenti di idrocarburi e processi geodinamici che provocano i terremoti. Ci può illustrare in cosa consiste la sua ricerca e a quali risultati è giunta?

Lo studio è maturato nel contesto del tema della sismicità indotta, ovvero di quei terremoti che potrebbero essere causati – o quantomeno innescati – da attività industriali quali lo sfruttamento di idrocarburi, lo stoccaggio di metano in serbatoi naturali e lo sfruttamento di energia geotermica. Il tema è al centro del dibattito pubblico sul futuro energetico dell’Italia da poco più di tre anni, ovvero da quando sono accaduti i terremoti che hanno colpito l’Emilia il 20 e 29 maggio 2012. Il nostro studio però ha adottato un approccio opposto, affrontando quali possano essere le conseguenze di un forte terremoto su un giacimento di idrocarburi. Abbiamo dapprima identificato un’area-test di circa 10.000 km2 nella porzione sud-orientale della Pianura Padana, che è una grande riserva di idrocarburi ma è anche un’area sismica, come dimostrano proprio i terremoti del 2012. Abbiamo poi selezionato e analizzato 455 pozzi perforati per l’estrazione di gas metano, dividendoli in produttivi e improduttivi e verificando la loro distribuzione spaziale rispetto alle faglie responsabili di quattro forti terremoti avvenuti in quell’area: le due scosse del 20 e 29 maggio 2012 e due forti terremoti storici che hanno colpito Ferrara nel 1570 e Argenta nel 1624. La nostra conclusione è che i pozzi produttivi e le faglie sismogeniche sono anticorrelati, cioè quasi tutti i pozzi che si trovano al di sopra di una delle faglie responsabili di questi quattro forti terremoti sono improduttivi, mentre quelli che ricadono intorno ad esse sono produttivi in quasi un caso su due (46%). Quindi da un lato esisterebbe un criterio per selezionare le faglie che possono causare forti terremoti, che sarebbero solo quelle al di sopra delle quali non vi siano giacimenti di metano sfruttabili; dall’altro si potrebbe concludere che un giacimento produttivo ha una bassissima probabilità di trovarsi al di sopra di una faglia in grado di produrre un forte terremoto.

2) Secondo lei, sulla base di queste ricerche, si può affermare che esiste in Italia il rischio di provocare terremoti rilevanti attraverso le attività di estrazione degli idrocarburi? E poi, ci può dire almeno lei una volta per tutte se questo benedetto fracking idraulico per estrarre il famoso shale gas viene utilizzato o meno in Italia?

Come dicevo poc’anzi, il nostro studio in effetti ha esplorato il caso opposto, e cioè l’impatto dei terremoti sulle attività di estrazione degli idrocarburi. Ma i nostri risultati suggeriscono che un giacimento produttivo di metano per definizione non può trovarsi al di sopra di una importante faglia sismogenica, perché l’attività di quest’ultima nel recente tempo geologico avrebbe inevitabilmente causato la fuga del gas dal serbatoio profondo. Dunque, almeno limitatamente al metano si può asserire che le attività di sfruttamento non dovrebbero causare forti terremoti. Quanto al fracking, non ho esperienza diretta ma certamente in Italia non esistono le rocce scistose (“shales”) che hanno reso popolare l’uso di questa tecnica negli Stati Uniti e in altri paesi.

3) Ci sono state molte polemiche a seguito del terremoto in Emilia Romagna nel 2012 e da più parti si è data la colpa alle attività connesse all’estrazione di idrocarburi, al punto che la Regione Emilia Romagna istituì un’apposito organo per indagare sulla questione, la Commissione Ichese, la quale a sua volta giunse a conclusioni quanto meno controverse, non escludendo la possibilità di una correlazione tra i due fenomeni. Come giudica il lavoro di quella commissione e le sue conclusioni? Una successiva Commissione internazionale dichiarò che “non esiste alcuna ragione fisica per correlare la produzione di idrocarburi dal giacimento Cavone con l’avverarsi di quel terremoto”, ma viene sempre e solo ricordata la conclusione della Commissione Ichese. Perché secondo lei?

La Commissione Ichese ha operato con correttezza ma è giunta a delle non-conclusioni, come lei stesso ha detto. L’altro gruppo di esperti – che è opportuno ricordare, erano stati assoldati dalle compagnie petrolifere stesse – è invece arrivato a conclusioni più nette e rassicuranti. Credo che si parli di più della Commissione Ichese sia – come lei sembra suggerire – per la dirompenza dei suoi risultati, ancorché controversi, sia soprattutto per essere stata insediata direttamente dallo Stato attraverso la Regione Emilia-Romagna. E’ comunque doveroso ricordare che qui non si sta parlando di generare terremoti, ma di innescare terremoti che sono già in avanzata preparazione. Non esiste alcun processo antropico in grado di generare un terremoto di magnitudo 6.0: i terremoti causati direttamente dall’uomo sono molto più piccoli e di solito innocui. Ma esiste certamente la possibilità che in una zona in cui esistano delle grandi faglie in “caricamento” le attività di estrazione interferiscano con il ciclo sismico, anticipando – ma attenzione, anche ritardando, a seconda dei casi – il verificarsi del forte terremoto. Ricordo che la faglia che ha generato il terremoto del 29 maggio, che è quella “incriminata” perché posta sotto il giacimento di Cavone, era stata identificata già nel 2001 come possibile faglia sismogenica, tanto da portare ad un aumento della pericolosità sismica stimata dall’INGV nel 2004 per l’area della bassa emiliana. Ricordo anche che nella zona è nota una sismicità naturale non trascurabile e responsabile di terremoti storici confrontabili con quelli del 2012.

4) Spesso in questi casi gli ambientalisti oltranzisti colgono l’occasione per sparare a zero su un’intera filiera industriale – quella del settore energetico – che ha un’importanza strategica nel bilancio dell’economia del Paese, e scatenando in questo modo la cosiddetta “sindrome Nimby”, per cui i cittadini si schierano contro i progetti industriali in nome di un presunto danno all’ambiente e invocando, forse un po’ a sproposito, il principio di precauzione. Questo avviene anche in aree che stanno soffrendo particolarmente della crisi e che trarrebbero grande beneficio dagli investimenti del settore energetico, come per esempio le regioni che si affacciano sull’Adriatico. Secondo lei, quale può essere il ruolo della ricerca scientifica in un contesto in cui le notizie completamente false e prive di fondamento possono circolare in modo virale sul web e spesso non vengono riprese e criticate neanche dai giornalisti di professione?

Questa è una domanda alla quale è difficile rispondere, per tante ragioni diverse. La prima è che il web sta diventando sempre più un veicolo preferenziale per la trasmissione di notizie di “scandalismo scientifico” e sempre meno un tramite per divulgare informazioni scientifiche ben circostanziate. Il web – e purtroppo lo stesso vale per la stragrande maggioranza dei suoi utenti – ignora che nella prassi scientifica un ricercatore è ammesso a parlare di un certo tema solo se dimostra di avere le “credenziali” giuste, ovvero se possiede una produzione scientifica su quel tema documentata da pubblicazioni su riviste del circuito della ricerca internazionale. Questo circuito filtra e rende divulgabili i risultati ben circostanziati, misurandone anche l’impatto sull’intera comunità scientifica internazionale, allo stesso tempo bloccando le scoperte scientifiche prive di fondamento. Il web purtroppo fa tendenzialmente l’opposto, dando ampio spazio alle posizioni più controverse, magari espresse da ricercatori privi delle necessarie credenziali, e spesso mortificando risultati meno scandalistici pubblicati su rispettabili riviste internazionali. Qualunque utente del web dovrebbe sapere che non basta autodichiararsi esperti di qualcosa per acquisire autorevolezza. Io per esempio di calcio non so nulla, ma se decidessi di dichiararmi un esperto di questo sport qualunque tifoso potrebbe verificare in un minuto che sto millantando un’esperienza che non possiedo. Capire se un ricercatore è autorevole su una determinata materia è un compito decisamente complicato, reso però un più semplice da alcuni anni grazie alla nascita di banche-dati internazionali, alcune anche ad accesso gratuito: basta inserire in un motore di ricerca la dicitura “Google Scholar” seguita dal nome del ricercatore (come esempio potete provare con il mio nome) per avere un ampio resoconto della sua produzione scientifica e del relativo impatto.

5) Lei è un ricercatore che lavora in Italia, cosa che purtroppo non è possibile per molti dei nostri migliori intelletti. Secondo la sua personale opinione, sarebbe possibile – e forse auspicabile – che lo Stato decida di investire  parte degli introiti e delle royalties del settore energetico nella ricerca e nel territorio, per permettere migliori condizioni di lavoro (e di poter restare nel proprio Paese) a chi, come lei, opera nel settore della scienza?

Certamente! Una delle questioni più dibattute negli ultimi mesi riguarda proprio il ruolo della ricerca pubblica nel dirimere le controversie in campo energetico e ambientale. Noi ricercatori pubblici riceviamo richieste di supporto e consulenza sia da altri organi dello Stato, sia dall’industria, per esempio quella che estrae gli idrocarburi. E’ legittimo? Qualcuno sostiene che la ricerca pubblica dovrebbe rinunciare a lavorare per l’industria, proprio per dimostrare di essere “super partes”: ma non sempre lo Stato riesce a mettere a fuoco le ricerche che andrebbero incentivate e a finanziarle adeguatamente. Ricorrere alle royalties sarebbe sicuramente un modo per risolvere questo nodo salvaguardando la terzietà dei ricercatori.