Quando si pensa alla birra la prima cosa che viene in mente è: convivialità, sinonimo di serate tra amici in allegria e leggerezza, ci si vede per fare due chiacchiere davanti ad un boccale di birra, per una serata dal sapore economico e senza troppe pretese (perché è importante tenerlo a mente il rapporto qualità prezzo della birra è ancora a livelli ottimi e questo consente di bersi un buon boccale senza essere spennati vivi-cosa che accade con il fratello chic, il vino).
Oppure vengono in mente i fumosi e rumorosi pub europei dalla Repubblica Ceca (primo produttore europeo di luppolo), alla Germania, l’Inghilterra, fino al Belgio (personalmente tra le mie preferite) e l’Irlanda.
Per definizione la birra è una bevanda alcolica, ottenuta dalla fermentazione di mosto a base di malto d’orzo e aromatizzata con il luppolo (e non solo, esistono infatti moltissime varianti aromatiche come le ciliegie per la belga kiek, o il coriandolo,il curacao per le bière blanche).
Vede le sue origini già nella Mesopotamia e nell’antico Egitto e viene citata anche nel Codice di Hammurabi (1728-1686 a.C.) che condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati (ad es. annacquava la birra) e chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione. I veri artefici della diffusione della bevanda in Europa furono le tribù Germaniche e Celtiche. Questi ultimi in particolare si stanziarono in Gallia, in Britannia e soprattutto in Irlanda.
Il Italia paese del vino, anche la birra ha una sua tradizione,e diventa sempre più una bevanda di tendenza tra gli italiani. Il suo consumo nell’ultimo anno è salito a 30,3 litri pro capite, e soprattutto, è diventata la bevanda alcolica più bevuta nei pasti fuori casa durante la settimana (la consuma il 19,8% degli italiani, contro il 18,8% degli interpellati che dichiara di preferire il vino).
I primi produttori italiani di birra furono niente meno che i monaci di Montecassino, che nel Medioevo lanciarono una tradizione che ancora oggi sopravvive nelle celebri Trappiste dei conventi belgi ed olandesi. La data simbolica in cui si fa iniziare l’era industriale della birra è il 1789, anno in cui fu concesso dai sabaudi a Giovanni Baldassare Ketter di Nizza Monferrato il privilegio di fabbricare birra “per la città e per il suo contado”.
In realtà, fino alla fine del XIX secolo, la produzione di birra in Italia sarà a dimensione artigianale. Mancando la tecnologia necessaria per creare e controllare il freddo, i primi siti produttivi (Pedavena, Poretti) vennero creati al nord, nelle vicinanze delle catene montuose alpine, così da reperire la bassa temperatura necessaria per avviare il processo di fabbricazione direttamente dalla natura.
Cosa vuol dire birra artigianale?
Fino a qualche anno fa in Italia era data per scontata la definizione di Unionbirrai, che definiva la birra artigianale come una birra non pastorizzata e non filtrata. Questa formula si è però rivelata col tempo restrittiva, tanto che in seguito il riferimento alla filtrazione è scomparso, mentre è stato inserito il concetto di “birra cruda”. Si è vista quindi la necessità di inserire e dare una definizione nuova:
“La birra artigianale è una birra cruda, integra e senza aggiunta di conservanti con un alto contenuto di entusiasmo e creatività. La birra artigianale è prodotta da artigiani in quantità sempre molto limitate.”
Come si legge in una definizione molto vaga, viene lasciato moltissimo spazio alla libera interpretazione, mentre viene sottolineato il fattore emotivo e di cura artigianale del prodotto, in contrapposizione con uno industriale. Alcuni elementi in particolare vanno analizzati, la filtrazione che se eseguita in modo non eccessivamente invasivo non compromette l’integrità del prodotto, permettendo al tempo stesso di controllare meglio la qualità finale.
Inoltre nessun accenno sugli ingredienti; sappiamo che l’industria è solita ricorrere a surrogato del malto d’orzo ( per abbattere i costi di produzione) ma ovviamente questo contribuisce ad una scarsa qualità del prodotto, un ottima idea sarebbe quindi quella di considerare birre artigianali solo quelle realizzate con il malto d’orzo ma così si penalizzerebbero i mastri birrai più creativi che aromatizzano la birra creando sapori nuovi.
Quello che è certo è che un prodotto artigianale non deve contenere conservanti. Ma le controversie quindi su un tema molto complesso sono tante, basti pensare che sono considerate artigianali colossi birrai come Brooklyn, mentre la nostra Forst è considerata industriale.
Nuove leggi per le definizioni di birra artigianale
Da luglio 2016 si è aperta una svolta storica per la birra artigianale, il Senato ha approvato il DDL S 1328-B (Disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione, competitività per l’agroalimentare) stabilendo le regole e definizioni per una birra artigianale secondo cui una birra per essere considerata artigianale deve:
- Prodotta da birrifici “piccoli” (sotto i 200.000 hl di produzione annua). Ad oggi 200.000 hl sembrano una enormità dato che i più grandi micro ad oggi producono circa 17/18.000 hl annui ma il numero va visto in prospettiva di crescita da qui a qualche decennio.
- Prodotta da birrifici che siano anche indipendenti da altri birrifici: quindi eventuali micro che dovessero essere acquisiti in parte o in toto da altri birrifici non potranno fregiarsi del dizione “Birra Artigianale”.
- La birra prodotta dai suddetti birrifici per essere definita artigianale non dovrà essere pastorizzata e/o microfiltrata.
Inoltre la legge viene ancor più arricchita con l’articolo 35 dove “per piccolo birrificio indipendente si intende un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza di utilizzo dei diritti di proprietà immateriale altrui e la cui produzione annua non superi 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di birra prodotte per conto di terzi”.
Il processo produttivo fa la differenza: nella birra artigianale conta l’apporto umano e si escludono passaggi “industriali” come la pastorizzazione e la microfiltrazione che alterano il prodotto impoverendolo delle sue proprietà organolettiche e nutrizionali.
Inoltre la definizione vieta il ricorso a determinate soluzioni produttive che solitamente sono proprie dell’industria: in particolare non sono ammesse la pastorizzazione e la microfiltrazione. La definizione non entra nel dettaglio (ad esempio distinguendo diversi tipi di pastorizzazione), ma comunque impone il veto per due tecniche che da tradizione non sono associate alla birra artigianale.
Viene considerato sinonimo di artigianalità l’autonomia del birrificio, con indipendente legalmente ed economicamente da qualsiasi altro birrificio.
Queste sono le regole e le definizioni, ma come spesso accade nel cibo molto conta anche l’esperienza e il gusto, esistono ottime birre industriali, così come birre artigianali che senz’altro andrebbero migliorate. Un dato importante e curioso in Campania i maggiori birrifici si trovano nella zona del salernitano, piccole realtà e che vale sicuramente la pena scoprire.
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