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I giacimenti di Calvi Risorta – II puntata

Continua il reportage di Gianluca Vitiello su Calvi Risorta. La prima puntata del reportage è disponibile a questo indirizzo. Buona lettura.

Il lavoro di Vitiello è parte di un lavoro più ampio, in corso di pubblicazione, sul fenomeno dello smaltimento illegale di rifiuti in Campania. Il testo integrale è tratto da ACHAB, ottobre 2015, Marco Saya Edizioni.

 

Una delle cose che ho imparato in questi anni in cui mi sono occupato della vicenda rifiuti tossici, è che gli avvenimenti e le parole non sono mai a caso. Tutto ha un significato molto preciso. Ed è per questo che è impossibile scriverne standone all’esterno, alla propria scrivania, senza incorrere in banalità. Niente è come sembra dall’esterno. Riflettevo su questo mentre mi ero rifugiato nel bar di fronte alla discarica, sulla statale. Al fresco, con l’aria condizionata, cercavo di rimettere in ordine le idee e le immagini di quella mattinata. Qualche giorno prima, avevo incontrato nel basso Lazio, dove si era trasferito, un vecchio operaio della Pozzi Ginori. Gino era entrato in fabbrica nella seconda metà degli anni ’60. Prima di allora, come tanti altri, lavorava la terra. Giorni e anni passati a spezzarsi letteralmente la schiena, con i pesanti stivaloni immersi nel fango. Viveva non lontano dalla zona in cui fu costruita la fabbrica, con la moglie e tre figli. Aveva una bicicletta e un divano buono dove la sera si addormentava subito dopo cena. Il resto della mobilia se l’era costruita con le sue mani. Quando furono un po’ più grandi, i figli presero ad aiutarlo nei campi, e fu una fortuna perché erano tempi in cui il lavoro, da sempre duro e scarno di soddisfazioni economiche, stava diventando sempre più difficile a causa della progressiva ascesa della grande distribuzione. Riuscì a sopravvivere per qualche tempo. Anni che lui stesso ricorda come molto difficili. La grande fabbrica e la successiva assunzione giunsero come una manna insperata. È difficile capire cosa abbia significato un’assunzione in fabbrica per tanti agricoltori. Un salario fisso, la macchina , un’aggiustatina alla casa, il televisore, qualche elettrodomestico, più avanti le prime vacanze, la possibilità di spostarsi anche di qualche centinaio di chilometri. Detto così, sembra niente. Se facciamo riferimento alla vita che si conduce comodamente oggi, quando, persino in tempi di crisi economica, nessuno è sprovvisto dei più moderni ritrovati della tecnologia, sembrano cambiamenti trascurabili. Negli anni ’60, in quel lungo dopoguerra che si apriva alle lusinghe di un boom economico che faceva sognare, erano invece cose che spaccavano in due una vita. Una vera rivoluzione. Dopo tanta sofferenza, finalmente un certo benessere. I figli di Gino, poterono persino riprendere gli studi, che avevano condotto in maniera saltuaria.

Progettato già a partire dal 1959 dagli architetti Figini e Pollini, lo stabilimento di Calvi fu ultimato nel 1962. Faceva parte di una serie di 5 impianti chimici che la Pozzi aveva impiantato a cavallo tra i comuni di Sparanise e Calvi Risorta. Davano lavoro a circa 2000 operai e vi si producevano collanti, vernici, tubi in pvc, oltre alle ceramiche. I terreni circostanti erano coltivati con alberi da frutto. Proprio dove sorgeva il piazzale dello stabilimento Pozzi, fino alla fine degli anni ’50 le famiglie dell’agro Caleno si recavano ad acquistare la frutta direttamente dai coltivatori. Nel 1963 gli impianti funzionavano già a pieno regime, un cambiamento radicale avvenuto nel giro di pochissimi anni. Industria chimica inquinante al centro di terreni a vocazione agricola di qualità. In quegli anni, interrare gli scarti e i rifiuti di produzione nei terreni intorno alla fabbrica era una diffusa consuetudine. Non solo a Calvi. Ci sono interi appezzamenti di terreno intorno alle grandi fabbriche del Nord, ricolmi di veleni. Prima che la convergenza degli interessi di parte dell’industria italiana, della malavita, di ambienti massonici e apparati dello Stato trasformasse il Sud in una grande pattumiera, è così che l’industria italiana ha risolto il problema dello smaltimento delle scorie, fino a saturare vaste aree della pianura padana. Anche a Calvi, che la Pozzi interrasse i suoi pericolosi solventi in quei terreni, era una cosa che in paese era nota a tutti. Una di quelle cose che tutti sanno ma che nessuno osa dire ad alta voce. Troppo forte il ricatto occupazionale, troppo potente la paura di perdere i piccoli privilegi acquisiti, di dover ritornare alla vecchia grama vita di bracciante. Storie di cui il boom economico italiano è pieno. Il muro di silenzio non si ruppe neppure quando cominciarono ad ammalarsi i primi operai. Nelle fabbriche della zona circolavano sempre più spesso voci, anch’esse sotterranee, che facevano riferimento alla malattia. “Brutto male” – lo chiamavano tutti – e ancora oggi è rimasto così, senza alcun riferimento a quali ne fossero le cause. Quando qualcuno si ammalava, in genere non denunciava neppure la cosa. L’unica cosa di cui si preoccupava era cercare di inserire un figlio al proprio posto in fabbrica. Un modo per non far sfumare il relativo benessere acquisito. Si ammalò anche Gino. Era l’inizio degli anni ’80, e quella diagnosi quasi se la aspettava, da un momento all’altro. Gino infatti parlava del suo tumore come di una eventualità che aveva messo in qualche modo in conto.

Una situazione simile l’avevo trovata qualche mese prima. Fuori i cancelli dell’inceneritore di Acerra, la gente era tornata a protestare, un decennio dopo la grande mobilitazione contro l’apertura stessa dell’inceneritore. Il motivo era il conferimento nell’impianto delle ecoballe provenienti dalla località Coda di Volpe. Era una giornata piovosa, e i pochi che resistevano al freddo sotto la minaccia costante dello sgombero forzato avevano una gran voglia di parlare, di raccontare le loro storie. Mi si avvicinavano a gruppi e mi raccontavano le tragiche vicende di uno dei territori maggiormente compromessi dal punto di vista ambientale. Di quelle persone, decine, nessuna era scampata al terribile male. E altri in famiglia avevano subito la stessa sorte, ma non avevano avuto la loro stessa fortuna di poterlo raccontare. Quello che mi colpì è che tutti parlassero del cancro come di un passaggio obbligato della vita. Come sposarsi, avere un figlio, o laurearsi. Ma le similitudini si fermano qui. Perché a Calvi, tra i vecchi, era diffusa una certa tolleranza nei riguardi del problema. Il ragionamento sotterraneo – e mai palesato per la verità – era più o meno questo: la fabbrica ci ha dato tanto, qualcosa bisogna pur concedere. Quel qualcosa in molti casi è stata la vita.

 

Chi ha avuto la possibilità di visitare la fabbrica, mi ha riferito che non esistevano sistemi di smaltimento né vasche di depurazione. D’altra parte, negli anni ’60 l’attenzione alle problematiche ambientali era quasi inesistente, e la soluzione più conveniente era offrire ai contadini fino a cinque volte il reddito che riuscivano a ricavare dall’attività agricola per l’interramento dei rifiuti. Un affare imperdibile per tutti. E così alla fine degli anni ’70, i terreni intorno alla fabbrica erano già saturi di veleni.

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