I giacimenti di Calvi Risorta

Abbiamo il piacere di pubblicare su Econote un importante reportage di Gianluca Vitiello su Calvi Risorta, un tempo una delle zone più verdi e fertili del casertano, ma oggi conosciuta soprattutto per essere il luogo in cui è stata scoperta “la più grande discarica interrata d’Europa”. Nell’area ex Pozzi di Calvi Risorta infatti, in piena Terra dei Fuochi, le ruspe hanno portato alla luce una maxidiscarica di 25 ettari. Abusiva, sottoterra, e pericolosissima.

Il reportage di Gianluca Vitiello sarà pubblicato in tre puntate, ogni lunedì a partire da oggi, sul nostro sito. Il lavoro di Vitiello è parte di un lavoro più ampio, in corso di pubblicazione, sul fenomeno dello smaltimento illegale di rifiuti in Campania. Il testo integrale è tratto da ACHAB, ottobre 2015, Marco Saya Edizioni.

I giacimenti di Calvi Risorta

Di Gianluca Vitiello

Calvi Risorta. Uno dei comuni dell’Agro Caleno, nell’Alto casertano, noto nel mondo romano per le sue produzioni artigiane, e con una moneta propria già nel III secolo a.C. Quasi 150 chilometri quadrati di terre tra le più fertili del continente, di quelle che “anche se ci butti una pietra, diventa un albero”. Fino agli anni ’60, la zona dall’alto appariva come una nuvola verde di alberi da frutto. Poi i tempi sono cambiati – come ripetono quasi tutti in zona. I nuovi tempi avevano la faccia grigia e la puzza maligna di giganti di cemento, che negli anni del boom economico hanno iniziato a prendere il posto degli alberi. L’agognata industrializzazione ha spezzato secoli di lavoro durissimo, cadenzati dai ritmi del sole, sotto l’afa bollente o al gelo del vento sferzante degli Appennini. Per molti, una sorta di miraggio, la promessa di una vita un po’ più comoda, di un benessere che significava tante cose, tutte insieme. Eppure oggi, quasi tutti nel casertano associano alla fabbrica un’idea di morte, di malattia o di mutilazione. Una grande peste che ha stravolto orografie, dilaniato corpi sociali, inoculato veleni.

Decisi di andare a Calvi agli inizi di luglio. Alla metà del mese precedente, quella località con un nome talmente strano da far strabuzzare gli occhi, era finito sulle prime pagine di tutti i giornali. Scoperta la discarica di rifiuti tossici più grande d’Europa, avevano titolato all’unisono. La discarica più grande d’Europa era un’enorme appezzamento di terreno alle spalle dell’ex Pozzi Ginori, dal quale erano venuti fuori i rifiuti di oltre quarant’anni di sversamenti illegali. Ci andai lo stesso giorno in cui era in programma il sopralluogo della commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Alessandro Bratti.  Il termometro della macchina segnava 39 gradi, l’asfalto emanava calore che come una tendina mossa da un sottile sbuffo di vento deformava i contorni delle fabbriche che mi passavano davanti, tutte in fila come un’unica striscia di cemento che spaccava in due le campagne.

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Il piazzale della Pozzi era l’ultimo della fila. Perso nel vuoto come può esserlo una vecchia stazione di autobus abbandonata. Un paio di pensiline sbrecciate da un lato, dove gli operai probabilmente attendevano di salire sul bus che li avrebbe riportati a casa, una cancellata per tutta la lunghezza dello spiazzo, e un varco, in un angolo, che conduceva ai terreni alle spalle della fabbrica. Lo stabilimento se ne stava adagiato come un enorme relitto sul fondo del mare. Calcestruzzo corroso dalla pioggia e cotto dal sole. Nella luce abbagliante di inizio luglio, sembrava avvolto da un alone scuro, che si intensificava nell’inviolabile buio pesto degli interni. Fuori i cancelli, attendevano i giornalisti locali e un gruppo di attivisti dell’Agro Caleno, tutti addossati a un muro che offriva 50 centimetri di riparo dal sole martellante. Corpi semi-liquefatti, in grado di emettere poche faticose parole, ma comunque presenti, come sempre negli ultimi 20 anni, in prima linea per combattere un nemico che in molti hanno chiamato camorra, ma che ha in realtà confini molto più ampi, non sempre leggibili. Quanto è lontana Napoli da questa terra un tempo fertile, trasformata in una landa desolata e avvelenata? Tanto, tantissimo. Secondo alcuni la grande città è persino irritante, con i suoi giornalisti comodamente seduti dietro la scrivania di un giornale importante a scrivere pezzi pieni di banalità e di inutile retorica. Se di Terra dei fuochi se ne sa un po’ di più è senz’altro grazie al lavoro dei precari, dei collaboratori dei piccoli giornali e delle testate online, con pochissime eccezioni.
Li guardavo stupito, io che avevo girato tutta la Campania per due anni di seguito, a raccogliere storie e materiali. Ammiravo il loro senso pratico, quelle piccole attenzioni quasi maniacali che diventano il pane quotidiano di chi è abituato a stare anche 14 ore fuori casa, per fare bene il proprio lavoro. Arrivò la delegazione della commissione, scortata dai veicoli della forestale. I poliziotti che fino a quel momento avevano presidiato pigramente l’ingresso, presero ad asciugarsi il sudore che sgorgava dalle pesanti uniformi e iniziarono i controlli. L’accesso era consentito solo ai giornalisti muniti di regolare autorizzazione. Così, per passare i vari posti di blocco, mi posizionai esattamente al centro del gruppetto. Quelli che aprivano la fila, Salvatore Minieri – colui che aveva fatto esplodere il caso mediatico – e Francesca Ghidini della Rai, ripetevano come un mantra: “Stampa, stampa”, sollevando all’altezza del torace il prezioso tesserino. Procedevo dietro di loro con lo sguardo costantemente sull’iPhone, per evitare che qualche poliziotto potesse incrociare i miei occhi e accorgersi che tra le mie mani c’era solo un telefono e non il lasciapassare di cartone.

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Quando fummo finalmente all’interno, i viottoli polverosi diventarono braci ardenti sotto le nostre suole. Poco più avanti, davanti agli scavi, i componenti della commissione di inchiesta ascoltavano le parole del generale Costa. Mi sembravano elegantissimi nei loro abiti casual persino in una situazione del genere. Ci avvicinammo agli scavi eseguiti nelle settimane precedenti dalla forestale, con il sangue che pulsava sempre più velocemente nelle mie tempie e il respiro che si faceva affannoso dietro la pesante maschera che mi lasciava scoperti solo gli occhi. Era la prima volta che la indossavo, e mi ricordava in qualche modo le saghe spaziali degli anni ’70. Le trincee scavate erano cinque, disposte in parallelo, lunghe almeno quaranta metri e a distanza di una ventina di metri l’una dall’altra. Il terreno estratto formava cumuli dai colori cangianti, tutta una scala cromatica che escludeva solo il colore naturale della terra. Lo spettacolo era apocalittico. Dalla terra era venuto fuori di tutto.
Polveri nere, solventi che avevano colorato di rosso il sottosuolo, fusti arrugginiti, grandi contenitori di plastica, plastica triturata, sacchi contenenti materiali pericolosissimi, amianto in abbondanza, di cui lo stesso scheletro della fabbrica era imbottito. Su molti, nonostante i tanti anni trascorsi, la firma inequivocabile del produttore. La Pozzi, in abbondanza, ma anche società spagnole, francesi, la Good Year. Quando le avevano tirate fuori dalla terra, alcune sostanze avevano preso fuoco al contatto con l’atmosfera. Le trincee erano numerate con numeri progressivi, affidati a un paletto conficcato nella terra. Quella più profonda grondava infinite striscioline di un materiale sintetico arancione. Sembravano zampilli di sangue vivo che inondavano una ferita infetta. In qualche punto si vedevano ancora delle strane palline nerastre. Erano venute fuori al momento in cui la ruspa aveva affondato per la prima volta i suoi denti nel terreno. A guardarle stimolavano il primordiale istinto di farle rotolare con un calcio. Palline da golf – aveva pensato qualcuno – per quanto strana fosse la cosa. Poi avevano capito. Erano palline chimiche, che in origine dovevano essere bianche. Venivano utilizzate per ripulire i macchinari al termine dei cicli di lavorazione. Le avevano gettate nella terra impregnate di solventi e sostanze cancerogene.

Ma era in fondo, vicino all’ultimo scavo, che c’erano le testimonianze più inquietanti. Enormi buste contenenti anidride maleica e solfato di bario, sostanze ustionanti e altamente cancerogene. Sulle buste, leggibilissime e non offuscate dal tempo le scritte: Made in the People’s  Republic of China. Erano arrivate sin lì dalla Cina. Servendosi degli smartphone alcuni cercavano di capire se tutte quelle sostanze fossero necessarie alle lavorazioni della Pozzi. Non tutte, no. In quella discarica era avvenuto qualcosa che andava al di là dell’attività della fabbrica. Scarti dell’industria di mezzo mondo. Intanto l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Afa e un odore acre, una miscela insopportabile. Alcuni iniziarono a tirare fuori dalle borse bottigliette di acqua, con cui si bagnavano la fronte e gli occhi arrossati.

I miei occhi, invece, guardavano oltre i cumuli di terreno. Guardavano verso la struttura che mi ha accompagnato costantemente nei due anni di sopralluoghi: il viadotto dell’alta velocità ferroviaria. Sempre presente, sullo sfondo di quasi ogni discarica che avessi visitato. Le vie dei rifiuti hanno seguito percorsi molto precisi, quelli delle grandi opere pubbliche degli anni ’80 e ’90. Due in particolare: la superstrada Nola – Villa Literno e la TAV. In entrambi i casi i rifiuti sono stati interrati negli stessi scavi eseguiti per le fondazioni. Un modo per guadagnare due volte con la stessa operazione. Cemento e rifiuti come sempre a braccetto nella Campania delle emergenze infinite. A scavare nel buco nero della storia, emerge una data precisa: 23 novembre 1980. Il terremoto dell’Irpinia ha segnato la condanna della regione, generando l’immensa economia del cemento, la corruzione, l’escalation della criminalità, le collusioni sempre più salde con la politica. Buche, cave, interi versanti delle montagne scavati per estrarre gli inerti necessari alla produzione del calcestruzzo. Quelle buche, nei decenni successivi, sono state riempite con i rifiuti tossici di tutta Europa. A volte un incubo può generarne altri, persino peggiori.

Ma Calvi Risorta racconta anche altre storie. Storie legate inizialmente non ad un evento luttuoso come un terremoto, ma alla speranza, all’ottimismo del boom economico italiano. La fabbrica alle nostre spalle era stata considerata per tanto tempo “il progresso”, arrivato a liberare contadini analfabeti dalle catene di un lavoro massacrante. Sul viadotto, dal quale non riuscivo a distogliere lo sguardo, passò un treno, velocissimo e silenzioso come sempre. Sembrava una navicella spaziale di passaggio su una landa desolata. Il nuovo progresso che sorvolava una terra sedotta e poi lasciata alle sue rovine, esclusa dal futuro.

Andai via mentre l’onorevole Bratti, in piedi si un cumulo di terreno, usava parole caute per descrivere lo scempio. Bisogna valutare la pericolosità del sito, bisogna capire. Toni sinistramente in assonanza con quelli usati durante quei giorni da altri esponenti politici.