La prima volta che ho sentito parlare delle coltivazioni “No food” eravamo in una scuola a Casaluce a parlare di ecologia e sostenibilità e gli studenti mi avevano regalato un bellissimo mazzo di fiori (qui una foto di quel giorno).
A parlarmi delle coltivazioni “No food” è stato Raffaele Del Giudice, ex direttore di Legambiente Campania, protagonista di Biùtiful cauntri (documentario sullo sversamento dei rifiuti tossici in Campania) ed ora nuovo presidente Asia con il sindaco De Magistris di Napoli. Un uomo che spende tutto se stesso per il territorio, come ambientalista e per i ragazzi come educatore. E mi ha parlato di queste coltivazioni per recuperare i terreni contaminati dai rifiuti tossici.
Per favorire anche un inizio di bonifica dei suoli inquinati, si potrebbero convertire le coltivazioni di questi territori, non più destinate all’alimentazione umana ma con destinazione diversa, garantendo, al contempo, lo sviluppo agricolo ed economico.
Parliamo di colza per la produzione di biomasse o biodisel, dei girasoli per lo stesso utilizzo, del mais per la produzione di plastica biodegradabile, di pioppi per l’utilizzo del legno in vari impieghi industriali e poi ancora il lino, la canapa, il cotone, il tabacco e così via dicendo.
Il WWF tre anni fa aveva rilanciato la proposta della conversione alle coltivazioni “No food” nei territori inquinati fra Napoli e Caserta. Ritenendo “assurdo che si continuasse a coltivare sui terreni inquinati dallo sversamento dei rifiuti pericolosi a Giugliano in Campania e nell’Agro Aversano ricchi di metalli pesanti, idrocarburi, diossine, furani e tante altre sostanze molto pericolose per la salute dell’essere umano e dell’ambiente”.
Dalla Campania al Giappone, martoriato dal terremoto, lo tsunami e poi dai danni alla centrale nucleare di Fukushima. Il terreno circostante contaminato dalle radiazioni potrebbero essere drenate da questo tipo di coltivazioni che non rientrano nel ciclo alimentare, ne parlavamo in “Radiazioni Fukushima: ci salveranno i girasoli“. Le colture no-food rappresentano un’opportunità per l’agricoltura del nostro Paese, ma impongono nello stesso tempo uno studio accurato. Basta un fiore, una pianta, cosa stiamo aspettando?
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