Una soluzione “green” ad un problema grigio: La phytoremediation

Ogni attività umana può avere ripercussioni più o meno pesanti sull’equilibrio ecologico di un sito o di un ambiente apportando, il più delle volte, modifiche che possono risultare permanenti o comunque transitorie. Tali modifiche possono alterare, ad esempio, una componente ambientale (suolo, acque etc) o favorire il verificarsi di alcuni fenomeni fisici utili ai processi dell’uomo.

Qualunque sia l’attività umana svolta può accadere che il sito utilizzato, alla fine del processo in atto o concluso, risulti contaminato e dunque con concentrazioni di sostanze inquinanti superiori ai valori limite stabiliti dalla normativa nazionale in materia. Gli inquinanti possono essere individuati nei composti inorganici (ad esempio l’arsenico, il cadmio, il cromo o il mercurio) ed in composti appartenenti alla chimica organica (ad esempio gli idrocarburi aromatici, i fitofarmaci e le diossine); tali composti possono essere già presenti nell’ambiente naturalmente oppure essere introdotti durante l’attività umana, come nel caso dei fitofarmaci o degli idrocarburi.

Mentre qualche anno fa gli ambienti più colpiti erano, solitamente, le grandi metropoli, oggi si può affermare che le aree contaminate stanno via via aumentando sempre di più a causa, ad esempio, del traffico veicolare o di altri fenomeni. Secondo l’OCSE, nel 2013 in Italia erano presenti oltre 5000 siti contaminati di cui ben 57 di interesse nazionale; ben il 3% del territorio nazionale è occupato da queste zone pericolose per l’ambiente e per la salute umana.

Attualmente esistono svariate tecnologie applicabili per la bonifica dei siti inquinanti, ovvero capaci di abbassare la concentrazione di sostanze pericolose entro la soglia limite di legge. Tra i metodi di bonifica del suolo e dei sedimenti trovano posto i trattamenti biologici in sito che si basano sull’utilizzazione di materiale vivo (piante, microrganismi etc).

Phytoremediation-01
Fonte: http://systemsbiology.usm.edu

La phytoremediation è una tecnica applicata per la bonifica del terreno dai metalli, dei pesticidi, dai solventi ed altri materiali pericolosi. In questa tecnica vengono impiegate alcune specie di piante capaci di immagazzinare i metalli nei loro apparati radicali; i vegetali, una volta saturi dei composti nocivi, vengono raccolti ed eliminati. Successivamente si ripete il ciclo di impianto, crescita e recupero delle piante. In base alla specifica del processo interessato, possiamo distinguere varie tipologie di phytoremedition ( www.metea.uniba.it):

  • Rhizofiltration, dove le radici delle piante svolgono un ruolo di adsorbimento, concentrazione e precipitazione dei metalli pesanti
  • Phytoextraction, accumulo ed estrazione dei contaminanti nei tessuti delle piante da raccolto;
  • Phytotransformation, dove le piante degradano le molecole organiche complesse in sostanze più semplici ed assimilabili dalle stesse;
  • Phytosimulation o plant-assisted bioremediation, dove le radici rilasciando enzimi e sostanze “esauste” implementano la degradazione microbica e dei funghi;
  • Phytostabilization, le piante permettono l’adsorbimento e la precipitazione dei contaminanti, riducendone la mobilità e la migrazione nell’acquifero.

Questa tecnica a fronte di effetti senz’altro positivi sull’ambiente ha alcuni limiti principalmente legati ai tempi di bonifica, abbastanza lunghi, alle specie vegetali da poter utilizzare che devono ben adattarsi all’ambiente difficile delle zone contaminate ed alla possibilità che i contaminanti possano entrare nella catena alimentare se le piante non vengono debitamente controllate da infestazioni di insetti ed animali.

Le piante possono rappresentare delle ottime alleate per recuperare l’uso dei suoli contaminati dalle industrie e dalle attività antropiche che, negli anni, hanno trasformato aree molto vaste in veri e proprie discariche.