Desert Solitaire, di Edward Abbey

Prendete un grande scrittore, Edward Abbey, e il suo incondizionato amore per l’ambiente e l’ecologia. Mettetelo per una stagione nella “natura selvaggia”, a contatto con spazi immensi, fatelo lavorare come ranger nella regione desertica dello Utah, e otterrete una splendida non-fiction autobiografica che è allo stesso tempo sia un coraggioso grido alla libertà sia uno scritto di una potenza evocativa rara nel suo genere.

DesertsolitaireDesert Solitaire, da poco pubblicato da Baldini & Castoldi, è un saggio che sorprende per la freschezza e il messaggio ecologista, nonostante sia una riscoperta che ha sulle spalle quasi 50 anni. Pubblicato per la prima volta nel 1968, infatti, “Desert Solitaire: A Season in the Wilderness” ripercorre le vicende che l’autore ha vissuto a contatto con la natura durante un anno di lavoro come guardia forestale presso l’Arches National Monument vicino alla citta di Moab, nello Utah.

Abbey lavorò lì tra il 1956 e il 1957, e poco meno di dieci anni dopo tirò fuori dal cilindro un libro che ricorda negli approcci Walden ovvero la Vita nei boschi di Thoreau e nella sensazione generale che ti lascia a fine lettura Into the Wild di Jon Krakauer.

Un libro che mette insieme tutte le vicende vissute nel parco, e che spazia nei temi e nella scrittura, diventando di volta in volta grido contro la modernità, racconto romantico e descrittivo, resoconto di spedizioni pericolose e allarme giustifica, ecologista e antimoderno. Un testo pieno di natura, di riflessioni, di aneddoti che raccontano la vita nei boschi, scritti e accumulati appunto durante un anno vissuto in modo totalmente nuovo e rigenerante.

Ecco il meraviglioso incipit del libro:

Una decina di anni fa decisi di andare a lavorare come ranger stagionale in un luogo chiamato Arches National Monument, vicino alla cittadina di Moab, nello Utah sudorientale. Il motivo della decisione non è più importante; ciò che ho trovato lì è l’argomento di questo libro. Presi servizio il primo di aprile, fi no all’ultimo giorno di settembre. Il lavoro e il Paese dei canyon mi piacquero a tal punto che ritornai l’anno successivo per un secondo periodo. Sarei tornato anche il terzo anno – e da allora tutti gli anni – ma gli Arches, un luogo primitivo quando vi ero stato per la prima volta, sfortunatamente avevano conosciuto sviluppo e sfruttamento e dovetti rinunciare. Ma dopo qualche anno sono tornato comunque, ho fatto il tour completo e mi sono fermato per una terza stagione. In tal modo ho potuto apprezzare i cambiamenti avvenuti durante la mia assenza. Sono stati tutti periodi splendidi, in particolare i primi due, quando il turismo era ancora scarso e il tempo scorreva lentissimo – esattamente come dovrebbe scorrere – con le giornate che indugiavano lunghe, libere e spaziose come le estati della giovinezza. Finalmente avevo il tempo sufficiente per non fare nulla – o quasi – e l’essenza di questo libro è tratta in buona parte, a volte direttamente e senza modifiche, dalle pagine dei diari che ho riempito durante i giorni fluidi di quelle estati meravigliose. Il resto viene da escursioni e digressioni su idee e luoghi che in diversi modi sfiorano quel periodo centrale nel territorio dei canyon. Il tema principale del libro non è il deserto. Nel registrare le mie impressioni sull’ambiente naturale ho avuto come ambizione principale l’accuratezza, poiché credo che ci sia una specie di poesia, se non di verità, nella realtà in sé. Ma il deserto è un mondo vasto – un mondo oceanico, profondo, complesso e vario quanto il mare – e il linguaggio una rete dalle maglie larghissime con cui andare a pesca nella realtà, quando la realtà è infinita. Qualcuno che ne sapesse abbastanza potrebbe scrivere un libro intero sul ginepro. Non sul ginepro in generale, ma su quella specifica pianta che cresce aggrappata a un nudo blocco di arenaria vicino al vecchio ingresso dell’Arches National Monument. Io ho provato a fare qualcosa di leggermente diverso. Poiché non si può mettere il deserto in un libro più di quanto un pescatore possa tirare in secca il mare con le sue reti, ho provato a creare un mondo di parole in cui il deserto è più un mezzo che il contenuto. Ho avuto come obiettivo l’evocazione, non l’imitazione.

E ancora, sempre nelle prime pagine:

Questa non è una guida turistica, è un’elegia. Un memoriale. State stringendo una lapide tra le mani. Una roccia insanguinata. Non lasciatela cadere ai vostri piedi, scagliatela contro un grosso vetro. Che cos’avete da perdere?

 

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Impossibile negare i numerosi pregi di questo libro, che in effetti ha segnato un prima e un dopo nella narrazione ambientalista ed ecologista.

La scrittura di Abbey, poi, regala incredibili sprazzi di lirismo, splendide descrizioni dei luoghi narrati, di quei canyon e di quegli archi naturali nella roccia, “finestre di pietra” che, non a caso, ogni anno sono visitati da migliaia di persone che ricercano una natura incontaminata, e quei paesaggi che solo l’America più selvaggia e l’Australia sanno ancora regalare.

Il deserto di slickrock di arenaria. La polvere rossa, i dirupi bruciati, il cielo immenso. Ciò che si trova alla fine delle strade”, volendo citare Abbey. Lontano da tutto e da tutti, oggi come allora, la ricerca di un mondo incantato distante dal caos della modernità è un’utopia per molti, un sogno per pochi, il deserto solitario che incanta come una chimera ma che pochi davvero hanno il coraggio di abbracciare.

In un’epoca come questa, divisa tra consumismo sfrenato e desiderio di un ritorno alle radici e all’autosostentamento, la storia raccontata da Abbey quasi mezzo secolo fa è ancora incredibilmente attuale, per temi e linguaggio usato a tratti davvero sorprendente. Da leggere.