Oggi andiamo un po’ più lontano del solito, in Israele, in una realtà molto diversa dalla nostra e per certi versi difficile da capire, ma che può insegnarci tanto, andiamo alla scoperta dei Kibbutz e capirete perchè!!
I kibbutz sono insediamenti, sorti poco più di cento anni fa in Palestina, hanno subito una notevole evoluzione sociale, culturale, economica, politica, tanto che le comunità odierne sono ben diverse da quelle fondate dai pionieri dall’inizio del XX secolo.
Parlare del kibbutz significa scoprire cosa e chi può spingere degli esseri umani a emigrare in una terra desertica, senza acqua, senza strade, senza alcun riparo, sacrificarsi per renderla fertile, per riuscire a dare una Nazione al popolo ebreo che, perseguitato, fuggiva dall’Europa.
Da comunità itineranti sono diventate poi stabili, gradualmente sempre più estese territorialmente e popolate, sempre più numerose. Ripercorrendo l’intera storia del secolo di vita di queste originali comunità, il cui motto degli inizi era “Da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”, si registrano non solo profondi cambiamenti politici, ma anche e soprattutto grandi capacità di adattamento al mondo esterno, attraverso l’evoluzione economica e sociale.
Pier Paolo Pasolini scriveva: «La cosa più impressionante venendo in Israele sono i kibbutz». Come altri intellettuali europei, ma anche operai, politici e contestatari, Pasolini era rimasto affascinato da un’organizzazione sociale così dinamica e interconnessa.
E molte esperienze che attualmente viviamo come forme di difesa territoriale, alimentare e unitaria vengono da lì: sono i nostri esperimenti sociali dei GAS (gruppi di acquisto solidale), del co-housing e perfino del car-sharing.
Un kibbutz è una forma di comunità, in genere di tipo agricolo ma anche industriale. Nei kibbutz la proprietà della terra e delle case è comune, i bambini vengono allevati da tutti e i profitti delle attività suddivisi equamente.
C’è ne uno in particolare, che mi ha molto affascinato, un Kibbutz del tutto ecologico o meglio fondato sui principi della sostenibilità: il Lotan kibbutz.
A 50 chilometri da Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso che confina con l’Egitto e con la Giordania. Il Lotan kibbutz è un piccolissimo villaggio in mezzo alla Valle di Arava, circondato dal deserto brullo e roccioso e dalle splendide montagne giordane. Il tutto immerso in un verde che sorprende e stupisce visto il contesto in cui ci si trova. Nato solo negli anni ’80, il kibbutz ospita oggi una cinquantina di famiglie, circa 150 membri di cui più di 40 sono bambini. È isolato, in un ambiente naturale destinato a dare poco. Forse proprio per questo ha mantenuto gli ideali originari: vita di comunità, condivisione e suddivisione dei compiti, economia socialista. In più viene posta una grande attenzione all’ambiente, con una ricerca sperimentale su riciclo e recupero dei rifiuti e sulla bioarchitettura. L’obiettivo? Ridurre il più possibile l’impatto e l’impronta ecologica del proprio stile di vita per salvaguardare il pianeta e i suoi abitanti.
Non si butta niente di quello che si fa. È una comunità autosufficiente, produce tutto quello che consuma e rimette gli scarti nel terreno. Anche l’acqua con cui si lavano va poi a finire nei sistemi di irrigazione per le piante e la verdura. Allevano mucche per il latte. E persino le loro feci vengono utilizzate come concime nel terreno.
Il Lotan è veramente un posto magico, tra le casette di fango e paglia tutte decorate in modo diverso, tra le panchine e i gazebo di sabbia che sembrano delle opere d’arte, nei muri inseriscono i rifiuti inorganici, si incontrano qua e là vecchi mobili e cassapanche trasformati in forni solari dislocati negli spazi aperti come fossero barbecue.
Inoltre il ritmo tranquillo di una vita comunitaria organizzata, aiuta a vivere in sintonia con ciò che li circonda. Ho letto, infatti, di molte persone che han deciso di abbandonare il proprio stile di vita frenetico per venir a vivere in queste comunità.
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